Friuli: Il Biodistretto occasione di sviluppo delle imprese e delle aree interne

Friuli: Il Biodistretto occasione di sviluppo delle imprese e delle aree interne

Intervista con la presidente di AIAB del Friuli Venezia Giulia, Cristina Micheloni.
A cura di Veronica Rossi


Al modello di sviluppo tradizionale, legato allo sfruttamento incontrollato delle risorse, sta da tempo dimostrando i suoi limiti da tutti i punti di vista, da quello sociale a quello economico, passando – soprattutto – per quello ambientale. Basta guardarsi attorno per accorgersi che un cambiamento di rotta è assolutamente necessario. Ma è possibile creare ricchezza e benessere su un territorio, tutelando allo stesso tempo la natura e gli esseri viventi – animali e vegetali – che lo abitano?

La risposta a questa domanda può venire dai biodistretti, aree naturalmente vocate al biologico nelle quali gli attori delle filiere locali (agricoltori in primis, ma anche scuole, associazioni, privati cittadini e istituzioni) stringono un accordo per la gestione sostenibile delle risorse; si tratta a tutti gli effetti di un patto per una crescita green, che coinvolge ognuno degli anelli della catena produttiva, dalla coltivazione al consumo.

Questo modello sarebbe applicabile alla Carnia, dove, complici anche i molti terreni inutilizzati, si sta accendendo un dibattito molto partecipato sul futuro dell’agricoltura? Noi di Innovalp.tv ne abbiamo parlato con la Presidente di AIAB Friuli Venezia Giulia, Cristina Micheloni.

Innanzitutto, da dove nasce l’idea di biodistretto?

«Come AIAB abbiamo iniziato a lavorare su questo modello una decina di anni fa. Siamo partiti dal parco del Cilento, in Campania, per poi continuare in Val di Vara in Liguria e nella valle del Chianti in Toscana. Per le sperimentazioni abbiamo scelto territori in cui l’agricoltura biologica avesse non solo una presenza consistente, ma anche forti relazioni con tutto il tessuto economico e sociale dell’area».

Qual è il ruolo delle istituzioni nel processo?

 «Sul ruolo delle istituzioni c’è stata una lunga discussione in seno all’associazione. Alla fine abbiamo ritenuto che un loro coinvolgimento fosse giusto, ma che non dovessero figurare tra gli attori principali: un biodistretto deve partire dal basso, dalle persone e dalle realtà che effettivamente animano le filiere».

Quali sono i vantaggi per gli agricoltori?

«Fare biologico in gruppo offre molti vantaggi per gli agricoltori; per prima cosa permette una maggior difesa contro gli inquinanti non voluti, che costituiscono un vero problema per il settore, soprattutto quando i vicini praticano l’agricoltura convenzionale. Lavorare insieme, poi, dà anche la possibilità di creare un ecosistema territoriale più resistente verso i parassiti. Facendo un esempio pratico, uno degli scopi per cui è nata l’esperienza del Chianti è stato quello di trovare una soluzione alla flavescenza dorata, una malattia della vite».

E per gli abitanti del territorio?

«La risposta ovvia è che i cittadini possono godere di un ambiente più salubre e più piacevole in cui vivere. L’intera economia del territorio, inoltre, può trarre giovamento dalla costituzione di un biodistretto, che rappresenta per i prodotti locali un plus-valore a livello commerciale».

Quante sono attualmente le esperienze attive in Italia?

«Al momento ci sono una quarantina di biodistretti – alcuni in uno stadio di sviluppo più avanzato, altri meno – in tutta la penisola, da Nord a Sud . Un esempio che mi piace citare è l’esperienza di Bergamo, dove si pratica bioagricoltura sociale. Dopo quello che è successo lo scorso anno, è diventata un simbolo della tenuta del sistema».

Come vede l’idea di un biodistretto in Carnia?

«Sicuramente ci sono molte potenzialità. Penso, per esempio, all’ambito della zootecnia. Creare un biodistretto in Carnia permetterebbe di coniugare agricoltura, turismo sostenibile, escursionismo e ristorazione, ma ci sarebbero delle sfide da affrontare, in primis quella della collaborazione tra le diverse realtà del territorio, essenziale perché tutto il processo vada a buon fine».

Chi volesse spendersi per realizzare un biodistretto in Carnia, che passi dovrebbe muovere?

«Per prima cosa bisogna fare rete, partendo da un territorio relativamente piccolo, magari con la prospettiva di allargare il campo d’azione in seguito; gli agricoltori devono parlarsi, riunirsi. Subito dopo si possono coinvolgere altre realtà interessate dalla filiera del biologico – scuole, ristoranti e operatori del settore turistico, per esempio – per dar vita a un comitato promotore.  L’associazione va poi formalizzata, per iniziare a mettere nero su bianco i servizi che verranno offerti a contadini e cittadini».

Ultimamente si parla spesso di ripresa economica. Un biodistretto potrebbe contribuire a rivitalizzare le aree interne, anche dopo l’epidemia di Covid-19?

«Certo. La pandemia ci ha insegnato che è necessario un cambiamento nel modello economico e in quello di gestione del territorio; il b iodistretto può essere una svolta in questo senso, perché mette al centro le filiere locali e la tutela dell’ambiente, aumentando la resilienza di tutto il sistema».

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