Riflessioni “Montagne vuote”

Riflessioni “Montagne vuote”

 Montagne vuote

L’intersecarsi e le interdipendenze di fenomeni strutturali che contraddistinguono la contemporaneità e che si riflettono su luoghi e comunità impongono una «potente svolta culturale», aggiungerei di natura sistemica.
Il cambiamento climatico, le radici che si prolungano e spesso si dissolvono in virtù del trasferimento all’estero di tanti ragazze e ragazzi delle aree interne, la continua ritrazione di servizi pubblici e privati da realtà divenute meno produttive associati alla regressione demografica e all’invecchiamento della popolazione fanno emergere la generale «incapacità dei centri» di gestire gli effetti sulle aree marginali e in montagna.
Come se non bastasse, all’orizzonte sta progressivamente emergendo il problema della produzione e gestione dei servizi ecosistemi nelle Terre Alte (aria, paesaggio, biodiversità, assetto idrogeologico, acqua, energia, bosco, agricoltura) cui mettere mano per la stessa esistenza di città e pianura: il permanere di situazioni problematiche rischia di far venir meno l’enorme valore contenuto nelle montagne, siano esse le alpi friulane o gli appennini pistoiesi, rappresentato da capitali, patrimoni e dallo stesso «spirito dei luoghi», allontanando il contributo che queste possono fornire nella produzione e distribuzione della ricchezza. Essere consapevoli di questa condizione critica è già un ottimo punto di partenza.

Il demografo Marco Breschi e il docente Maurizio Ferrari attraverso “Montagne vuote” (Forum, 2023) offrono un affresco prezioso e dettagliato di un «paese velocemente in decrescita» dove i destini ed i futuri di luoghi e comunità non solo dipendono dalla somma di variabili ed e combinazione di trend differenziati ma richiedono l’esistenza di “centri” capaci di anticipare e governare i fenomeni. Non è inutile insistere, come fanno gli studiosi, sull’urgenza di avviare politiche di foresight basate sull’esame delle insidie e sugli scenari futuri, in coerenza con la lezione di Friedrich Nietzsche il quale osservava come «il futuro influenza il presente tanto quanto il passato», e di promuovere misure di adattamento ed iniziative di impatto e reazione.

L’Italia e con essa il Friuli Venezia Giulia perdono abitanti almeno dal 2014 non compensati dai fondamentali nuovi arrivi e flussi migratori. Al 2070 l’Italia perderà 11 mln di abitanti, la desertificazione coinvolgerà 11 Regioni su 20 (resisteranno più di altre l’Alto Adige, il Trentino, l’Emilia Romagna, la Lombardia) e la nostra rischia di andare ben oltre sotto il milione.

Lo stravolgimento della struttura delle classi d’età con il contrarsi del contingente dei potenziali genitori influirà secondo “Montagne vuote”:
1) sulle organizzazioni sociali; scuola, sanità, fisco, previdenza: già ora si registra, per un verso, la drastica riduzione degli alunni e studenti che disarticola i tradizionali modelli scolastici, e per l’altro si afferma l’esigenza di rafforzare i servizi a favore dell’invecchiamento attivo e di far fronte ai rischi di decadimento cognitivo;
2) sul modello di sviluppo; in particolare sui livelli di produttività e capacità di generare innovazione continua;
3) sull’equilibrio territoriale; c’è da chiedersi come si dovranno attrezzare le mico-comunità nel presidio di vaste porzioni del territorio, con il sud e le aree interne penalizzate più di ogni altro contesto mentre, contemporaneamente, si assiste alla scomparsa di centinaia di piccole località e all’ampliarsi del numero dei Comuni sotto i 2.000 abitanti (oggi rappresentano il 44.4% dei 7.903 Comuni italiani che occupano oltre il 30% della superficie e dove vive il 5,6% della popolazione).

Breschi e Ferrari sottolineano la difficoltà ad affermarsi di un pensiero forte e di policy pubbliche in grado di gestire il ciclopico problema delle «diseconomie esterne» costituite dalla molteplicità di costi aggiuntivi e svantaggi. Ci invitano, in primo luogo, a «capire le ragioni» del processo demografico regressivo in atto e se questo ha, o meno, una natura di «irreversibilità». Suggeriscono, in secondo luogo, l’avvio di politiche adeguate e stimoli ai sistemi (economici, urbani, locali) di adattamento e flessibiltià poiché i «costi per la collettività sono tanto maggiori quanto meno flessibile e plasmabile è la struttura sociale».
Se nel passato non sono mancate le prove di adattamento che decisori e popolazioni hanno saputo intraprendere, nella contemporaneità che stiamo vivendo le misure da perseguire non possono che avere una valenza di «integrazione» dove, ad esempio, le politiche specifiche sulla genitorialità ed il welfare si dovranno necessariamente combinare con azioni di accoglimento e inclusione dei migranti e stranieri. Del resto questa scelta sta premiando l’Alto Adige che ha visto negli ultimi ventanni i cittadini stranieri passare da 20.000 a 100.000.

Le montagne, appenniniche o alpine, interne o affacciate al mare, non sono evidentemente sinonimo ineluttabile di crisi.
Gli autori di “Montagne vuote” offrono a autorità, gestori, studiosi e cittadini una serie di indicazione utili da accogliere. Sottolineo, tra gli altri, due indirizzi.
Laddove la montagna non è «minoranza» aumentano le probabilità della non irreversibilità del processo di decadenza. Non essere in minoranza significa che le politiche pubbliche la collocano al centro degli interessi più generali della società, cioè la rendono fulcro e destinataria di un’idea complessa di promozione dei servizi indipendentemente dal numero degli abitanti e svincolata dai criteri e standard urbani nell’organizzazione dei servizi; vuol dire che è messa nelle condizioni di procedere con il governo integrato del territorio e dei patrimoni e, non da ultimo, che viene dotata di strumenti per la gestione dei servizi ecosistemici in diretta connessione con lo sviluppo regionale.
Dall’altra parte, le istituzioni locali devono saper assolvere ad una funzione strategica: i Comuni di ridotte dimensioni e fragili demograficamente, che non sono quindi nelle condizioni né di supportare le esigenze delle proprie comunità né tantomeno di far fronte alla forza e velocità delle sfide esterne, dovranno essere capaci di realizzare robuste reti di collaborazione e governance ampie e strutturate. È la condizione minima per impostare e generare politiche in grado di determinare impatti concreti sulla vita dei paesaggi, delle persone e delle imprese.
Più in generale, i contesti montani (indipendentemente da come vengono di volta in volta riconosciuti: Aree interne, Terre Alte, Montagne di mezzo) non possono limitarsi a «resistere» guardando speranzosi all’evolversi di città e pianura.

Sono chiamati a dar vita a forme di complementarietà, interdipendenze e collaborazione tra le diverse componenti territoriali. Una di queste, forse sul piano teorico la più matura, è il patto metromontano. Attraverso questo “quasi -concetto” è possibile far dialogare e catalizzare interessi differenti e di superare la dialettica «centro – periferia» o «alto – basso» in modo da rendere possibile una visione comune e l’impiego equo, efficace ed in una logica di sistema dell’enorme quantità di risorse oggi disponibili, indispensabili per affrontare le sfide climatiche, demografiche, ecosistemiche e dell’innovazione e per gestire gli impatti che queste determinano.
Ma è certo che anche in questo caso serve una «svolta culturale», che ancora non si intravvede, e una rinnovata «capacità dei centri» di operare affinché si affermi questa prospettiva, la sola che permette di riunire sotto un unico sguardo territoriale contesti che non ha più senso siano alternativi e conflittuali, superando le consuetudini di molti decisori di pensare all’economia e alla società “con la montagna rivolta alle spalle”.

Maurizio Ionico
06/09/23

Post a Comment