Fonti rinnovabili e biodiversità, quale accordo possibile?


Le contraddizioni tra le necessità di preservare la biodiversità e il suolo e di ottenere energia da fonti rinnovabili. Il federalismo e una nuova governance dei sistemi complessi come chiave per armonizzare obiettivi ed esigenze differenziate. Il coinvolgimento degli attori territoriali attraverso il modello citizen science e l’approccio place-based.


Nel pieno della discussione su quali indirizzi dovrà incamminarsi il nuovo Ministero della transizione ecologica (Mite) e come raggiungere gli obiettivi del Green deal europeo, appaiono in tutta evidenza le contraddizioni che si pongono tra le necessità di preservare la biodiversità e il suolo e, per converso, ottenere energia da fonti rinnovabili (Fer). Questa situazione diventa conflittuale soprattutto nelle Regioni del nord, tra cui il Friuli Venezia Giulia, considerato che all’interno di questo sistema territoriale sono in corso di valutazione centinaia di programmi privati di realizzazione di centraline idroelettriche sui torrenti secondo il sistema “run of river”, pur promossi “in progetti di mitigazione del cambiamento climatico” (Natalia Magnani, Mobilitazione contro il mini-idroelettrico nelle Alpi italiane, 2020) e di parchi fotovoltaici sui suoli agricoli. Qualora una parte degli investimenti previsti concentrati nell’arco alpino e in pianura fosse approvata dalle autorità regionali si assisterebbe a rischi concreti di perdita di biodiversità, peraltro nel contesto degli effetti determinati dal cambiamento climatico, e di scomparsa di migliaia di ettari di terreno fertile, almeno 200 ha. in Regione sotto la spinta dei contratti diretti di vendita dell’energia (senza contare quelli ipotizzati in zone miste industriali ed agricole)! Il punto è quindi duplice: come da un lato produrre energia dalle Fer senza incidere sui patrimoni, fiumi, torrenti e ruralità, quali fattori di biodiversità da proteggere, e dall’altro come ripensare i meccanismi di consumo ed utilizzo energetici agendo sui processi produttivi ed urbani. 

La questione è di per sé assai complessa. Attiene ovviamente al modello di sviluppo sostenibile cui tendere. Se al 2030 vanno raggiunti gli obiettivi indicati dal Green deal europeo (rispetto al 1990, riduzione del 40% delle emissioni di gas a effetto serra, quota del 32% di energia rinnovabile, miglioramento del 32,5% dell’efficienza energetica) si tratta di comprendere attraverso quali decisioni radicali si ottengono i risultati. Vi sono le puntuali indicazioni di organizzazioni come Legambiente (Roadmap di decarbonizzazione al 2030 e oltre. Scenari e proposte di policy per il Piano Clima – Energia italiano) e Wwf (Per una roadmap energetica al 2050. Rinnovabili, efficienza, decarbonizzazione) ed ora, in piena definizione delle 6 macro – missioni del Piano nazionale di ripresa e resilienza (in particolare la n. 2 Rivoluzione verde e transizione ecologica), attendiamo il programma operativo del Mite. E attendiamo i caratteri che assumerà il Pnrr Fvg in questo ambito. Ma, in ogni caso, se è necessario generare il 28% della energia nazionale da fonti rinnovabili entro il 2030, appare del tutto evidente che è indispensabile il coinvolgimento dei territori montani e delle aree rurali regionali considerato che è proprio lì che si trovano le principali fonti. Alla scala nazionale, l’acqua ha attratto investitori che per quasi il 70% dei casi ha realizzato impianti da 1 Mw, il 23% tra 1 e 10 Mw ed il restante da oltre 10 Mw (valori similari si registrano riguardo la montagna friulana); il suolo, sia già compromesso o industriale sia agrario, viene previsto possa essere trasformato nei prossimi anni per almeno 300 mln mq. per la costruzione di parchi e impianti fotovoltaici. In Regione, la componente “reversibile” del consumo di suolo, cui si annoverano i campi fotovoltaici a terra, è cresciuta del 2% nel corso degli ultimi anni raggiungendo un valore dell’8,92% (valori 2018) con perdita di suolo naturale pari a 292 ha. (al secondo posto dopo il Veneto e assai al di sopra dell’incremento medio a livello nazionale). 

La questione rappresenta anche una complessità di natura istituzionale. L’Italia è stata chiamata a corrispondere alla Direttiva 2009/28/CE denominata “burden sharing” che ha definito al 2020 la quota percentuale dei consumi finali lordi complessivi di energia coperta da Fer, tra cui si annovera l’energia prodotta attraverso gli impianti fotovoltaici a terra. In una dialettica multiscalare, le Regioni, in applicazione del Decreto del Ministero dello Sviluppo economico (Mise) del 15 marzo 2012 hanno dovuto rispettare il burden sharing.  In Friuli Venezia Giulia questa capacità di produzione era pari a 442 ktep di consumi finali lordi di energia da Fer (escluso il settore trasporti; in realtà, il consumo raggiunto è stato già nel 2016 di 670 ktonnellate equivalenti di petrolio; fonte: Gestore dei Servizi Energetici SpA – Rapporto di Monitoraggio, anni 2012-2018). Per quanto riguarda la produzione idroelettrica, il Gse ha posto in evidenza che nell’arco alpino questa tipologia è in diminuzione dal 2014 malgrado siano entrati in esercizio centinaia di nuovi impianti ciò per effetto dei cambiamenti climatici. Ai Comuni non è lasciato alcuno spazio di condivisione delle decisioni e di eventuale rigetto dei progetti operativi, sulla base delle disposizioni D.lgs 387/2003 (art. 12 c. 1 “le opere per la realizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili sono di pubblica utilità, indifferibili ed urgenti”), del Decreto del Mise del 10 settembre 2010 (Allegato 3) ribadite delle sentenze emesse dalla Corte Costituzionale (a partire dalla n. 282/2009 in poi). Le Regioni, e il Friuli Venezia Giulia tra queste, poco o nulla hanno fatto per ripensare al concetto della “rilevanza pubblica” degli impianti, quantomeno quelli di piccola dimensione, né per interloquire attraverso la concertazione alla scala locale al fine del corretto bilanciamento tra le esigenze di accrescimento dei livelli di produzione di energia e gli interessi della biodiversità e dei suoli agricoli, in ossequio al principio di “leale cooperazione”. 

Insomma, anche nel campo dell’energia che produce impatti su biodiversità e suolo, il federalismo non viene considerato un fattore decisivo per il raggiungimento degli obiettivi quantitativi né tantomeno per affermare uno sviluppo sociale ed economico di qualità. Vale anche per il federalismo “interno” alla Regione, basta riferirsi al fatto che il Piano Energetico Regionale (Per), approvato in base alla L. r. 19/2012 e diventato esecutivo con Dpgr n. 260/2015, che pur volendo assicurare sia “una correlazione ordinata fra energia prodotta, il suo utilizzo efficiente e efficace e la capacità di assorbire tale energia da parte del territorio e dell’ambiente” sia “il principio dello sviluppo sostenibile, tutelando il patrimonio ambientale storico e culturale”, dopo 5 anni sono ancora da completare alcuni contenuti che impongono il coinvolgimento proattivo dei Comuni. In particolare, le misure relative alla predisposizione di “linee guida contenenti criteri per incentivi a Fer e criteri autorizzativi legati alle aree non idonee”, Scheda 18, e di “ricerca, predisposizione di uno studio per determinare i criteri della inidoneità delle aree all’utilizzo delle Fer e per un consumo ‘sostenibile’ del suolo”, Scheda 18a. Ciò significa che, in pratica, possono essere trasformati in forme cosiddette “reversibili” ulteriori 200 ha di terreno agricolo da parte dei privati che, appunto, determinano effetti sul consumo di suolo, perdita di biodiversità e sulla produzione agroalimentare. Come non basta la L.r 21/2020 poiché si limita a disciplinare l’assegnazione delle concessioni di grandi derivazioni d’acqua a uso idroelettrico. 

L’avvio del Mite e il Pnnr devono rappresentare l’occasione di rendere coerenti leggi, strumenti e meccanismi autorizzativi che in Regione sono asimmetrici. Non è pensabile che la gestione delle questioni energetiche e climatiche, strettamente connesse, e dei patrimoni ambientali e territoriali sia del tutto slegata, nei principi e nelle procedure: basti pensare alla L. r. 6/2019 sul contenimento del consumo di suolo, che parla di “promozione del territorio regionale e per lo sviluppo sostenibile delle attività produttive (…) il recupero e la riqualificazione del patrimonio esistente e per la valorizzazione delle aree naturali”, ma non influisce sulle modalità di attuazione del Per che, a sua volta, può fare a meno di riferirsi alle indicazione del Piano Paesaggistico Regionale sulla tutela delle acque, del paesaggio e del patrimonio rurale (Ppr, approvato con Dpgr il 24 aprile 2018, n. 0111/Pres). In definitiva, il federalismo e una nuova governance dei sistemi complessi, come la gestione delle strutture urbane e industriali, la transizione energetica e i cambiamenti climatici, possono rappresentare la chiave per armonizzare e contemperare obiettivi ed esigenze differenziate. 

L’energia, il clima e i patrimoni hanno bisogno di società. Dal diretto coinvolgimento ex-ante sulla base del modello citizen science e dell’approccio place-based degli attori territoriali, formali (istituzioni pubbliche, agenzie di sviluppo locale) e informali (associazioni del luogo, aziende agricole), ben consapevoli dei rischi connessi alla realizzazione di opere e impianti, è possibile trarre soluzioni di governo delle risorse e accogliere innovazioni riguardo soluzioni e tecnologie, fino a ripensare le ipotesi di sviluppo locale attraverso una compiuta produzione di beni e servizi ecosistemici.

Per completezza e a dimostrazione di come il tema in Friuli Venezia Giulia tocchi la sensibilità della popolazione, alleghiamo il documento PDF scaricabile dell’Appello dei Comitati “Salviamo le ultime acque della nostra montagna”